La Zagaglia - Una Lettera Romana
1959
Quando, dopo gli anni universitari, lasciai la Roma ancora familiare e raccolta d'una trentina d'anni fa, loro, gli artisti salentini, giovanissimi, ci arrivavano, alla spicciolata a coltivare gli studi e le speranze della loro futura biografia.
Lo sentissi, non mi vergognerei di confessare un provincialismo cafoncello ed errabondo. Fortunatamente, è ancora uno dei tratti umani, una proporzione cordiale che l'urbe conserva e italianamente manifesta in questo suo straripare abnorme degli ultimi decenni. Ma io, tornato nella capitale dopo quasi una vita di cosmopolitismo, andavo ritrovando un nucleo, un nucleo d'ordine e di carattere per ritesservi intorno una necessità di vita che in ogni luogo, ma a Roma soprattutto, vale alla conservazione spirituale, a non farti schiacciare all'impassibilità della storia e dell'anonimato.
Così, a uno a uno Armenio, Casotti, Delle Site, Pellegrino, Pinto, Starace, Troso li ritrovai nella mia attenzione per l'arte e gli artisti d'oggi, fra Personali e Collettive, nel gran delta delle Gallerie che fanno stagione e mercato d'arti figurative, fra il Babuino, Piazza di Spagna e Passeggiata di Ripetta, in una Roma rimasta il più possibile consentito dai tempi in un tal quale drappeggio sthendaliano. Montparnasse salentino è detto per colorare un po' il titolo, per evocare una professione di tavolozze o bulini. Nessun'altra autenticità col modello bohème parigino i nostri pittori e scultori viventi a Roma sollecitano. La scapigliatura d'abbigliamento e di costume va sparendo, forse insieme con il romantico nell'arte, oggi tanto presa da algebre e geometrie. E persino in Via Margutta ,che va rubacchiando, con l'aiuto delle Autorità, stanchi atteggiamenti montmartriani e lì lì demoniaci, mette in mostra sempre meno tipi in mise fuori serie, imbarbati e vestiti da far colpo e poète maudit. Qualche blue jeans, qualche giubotto fra da imbianchino e cacciatore. E più nulla. Persino Novella Parigini è scivolata dal centro ai margini della curiosità aneddotica del pubblico. Armenio, Casotti, Delle Site, Pellegrino, Pinto, Starace, Troso sono cari padri di famiglia e ottimi borghesi e, purtroppo, non posso falsarne l'immagine. In fondo, in questa misura di vita portano il senso umano della loro terra.
A mettere le bandiere sulla mappa della città, come fanno, mi sembra, i comandanti di esercito, nei punti dove ognuno abita, imbandiereremmo, a grandi distanze, tutta Roma. Impietosito dalla tragedia di vie e mezzi di comunicazione per andarlo a trovare, a non ricordo quale chilometro di quale via consolare, su per giù dove erano gli Etruschi, Veio, Armenio s'è avvicinato al centro d'un certo numero di miglia. Solo il suo coraggio a barbetta, un taglio fisico - rimpicciolito un paio di volte - fra D'Artagnan e Napoleone III, potè affrontare, la notte in cui, terremotati negli orari e in ogni ordine dall'implacabilità ambulatoria di Francesco Barbieri, di passaggio a Roma, lo piantammo, prossimo alla scadenza mattutina della notte, in Piazza Argentina, la traversata annibalica dell'Urbe e campagna per raggiungere il tetto familiare. Dolce e suadente era, per andare a trovare Troso, arrivare, per Trastevere, sotto le pendici del Gianicolo ove l'impasto dell'aria, i giardini reclusi entro un vecchio muro, la familiarità pubblica della vita popolare, ti riconduce ad una condizione di gioia e di verità atrocemente smarrite sugli asfalti irritati e caotici della città.
Oggi anche Troso ha raggiunto il nuovo, un appartamento lucente, imbandierato di luce, come quelli di Delle Site, Starace, Pinto, Pellegrino, Casotti. Sembrano appartamenti che, più che prenderla, diffondano luce. E dentro ci lavorano sodo, fra panorami bellissimi e, se non comincia presto il riscaldamento, qualche brivido nel tardo autunno. La veranda di Pippi Starace, un piccolo molo sulla Roma nomentana, è una serra di fiori. Li mostra a tutti orgoglioso. Ma bara. La floricultrice è la signora. Lui non ha merito.
Questi nostri artisti, dunque, lavorano sodo. E' raro che li trovi da Canova, in Piazza del Popolo, il quartiere generale degli artisti e consimili. E' proprio lì il rifugio delle ultime sgocciolature romantiche.
Vi capita l'indossatrice in fregola e speranzella di far cinema. Il tipo col cartellone dei disegni sotto il braccio. Una barba alla nazarena. Una ragazza bistratissima: fa molto cocotte, e ci tiene. Dei nostri, chi fa il professore Troso e Pinto sono gli eroi della categoria: vanno e vengono circa ogni giorno dalla Ciociaria). Una telefonata di Starace
può sempre avvisarti che Pippi parte per una qualche città d'Italia, una di Delle Site può, seriamente, comunicare con un'allusione alla congiunzione attuale degli astri e relative conseguenze sugli eventi umani individuali e collettivi. Cattolicissimo, credentissimo e certo dell'astrologia! Non me ne intendo. Lui fa combaciare tutto perfettamente. Casotti è andato ad appollaiarsi in cima a Piazza di Spagna, nel cuore più generoso del panorama romano, a dirigere la Galleria "L'Attico". Nei momenti di sosta della sua galleria d'avanguardia, va muovendosi per le sale, forse come l'Innominato si muoveva per il suo castello. Pellegrino, sotto Monte Mario, alterna nostalgie leccesi, rievocando sul cartone linee e volumi della vecchia Lecce, con la pittura di paesaggi romani, e la scultura. Uno dei più recenti suoi lavori
è il busto di C. G. Viola, la fissazione nella creta di quel volto simpatico e arguto. Su questo panorama di uomini, uomini fisici, giganteggia Pinto alto, quadrato, vasto, possente; il campanile del Montparnasse salentino a Roma. Se i suoi avi brindisini, i Mèssapi, erano di quella taglia, non mi spiego come l'impero universale non lo abbiano fondato loro invece dei romani.
Ma Roma, che non ha centro, che non ha un punto d'incontro ove possano coincidere in comune ora, distanze, autobus, ove possa, insomma, depositarsi con gli amici la continua centrifuga delle faccende e delle cose, riscatta la dispersione e la diaspora con Trastevere.
Trastevere è, oltre che la più viva storia, più storia dei ruderi, la civiltà conviviale.
L'aggressione edilizia ha fagocitato quasi tutte quelle osterie di campagna che circondavano la città come una cintura edonistica, il segno vivo d'una tradizione campagnola e godereccia, che per secoli accettava la familiarità bonacciona e strafottente dell'ambiente. Chateaubriand, Byron, Gregorovius e Goethe, potevano partire dalle estasi di Trinità dei Monti o dalle sudate carte, ma non potevano sottrarsi ad andare a finire, con delizia arcadica, a quelle esperienze gastronomiche e popolaresche. Pazienza morale, caparbietà d'ambizioni, stomaco a succhi gastrici ferocemente aggressivi sono elementi condizionatamente indispensabili per vivere nell'urbe.
Capitale conviviale della metropoli è Trastevere. Va adulterandosi anch'esso, peccato! Le vecchie e gloriose osterie trasteverine vanno sparendo. E sarebbe romantico rimpianto se le distruggesse il tempo, l'edilizia nuova, i costumi. Ma squallido è che si autodistruggono trasformandosi in locali di lusso fasullo, in ristoranti tovagliati, in ridicole boites d'artificioso colore da Ottocento brigantesco o, peggio, di romanume archeologico.
Pure, qualcuno di noi valoroso competente di gastronomia ed eruditissimo topografo della monumentalità gastrica romana, sappiamo ancora trovare il posto adatto per stomaci adatti. E lì, oltre gli incontri singoli, a belle scadenze, ci riuniamo col Montparnasse salentino di Roma. C'è ancora da portare qualche amico di passaggio nella casa ove Raffaello si consumava con la Fornarina e dove oggi una celebre trattoria ,su per giù adegua tanta gloria ;d'arte al menù. Ma è da Ivo, uno dei pochissimi osti fedeli alla storia dell'osteria romana e alla bionda verginità del vino dei castelli, che più facciamo le nostre assemblee conviviali. Troso esita impaurito dinanzi alla pagliata, d'efferata resistenza digestiva. L'affrontano meglio Delle Site e Pinto, che a Taranto deglutirono per antipasto cinque chili di cozze. Armenio, col suo sorriso di bambino, non sai se l'affronta con incoscienza della digestione serale o per intimo convincimento di vittoria.
Starace osa, liceat insanire, la prova eroica una volta tanto.
Arte, artisti, progetti, critica, a tavola. E, assicuro, nessuna maldicenza. I letterati, gli altri artisti, gli amici che passano da Roma, non andranno mai via senza un ricevimento nel Montparnasse salentino. Ennio Bonea, una vola, lo facemmo, dopo la più romulea cena, camminare per quattro ore nella vecchia Roma.
E allora, pur giovani della giovinezza della maturità, fluiscono i ricordi, la Lecce di trent'anni fa, nomi che vengono alla superficie della memoria come sui fiumi oggetti sollevati dalla corrente, volti di vecchi e di coetanei, disegni e promesse di venirci « quest'estate ».
L'estate è la grande stagione della speranza degli uomini. Purtroppo è come la speranza in Leopardi: all'apparir del vero, misera cade. L'estate riconsegna, con gelida puntualità, faccende e impegni e Lecce resta remota in un gorgo di nostalgia e di proroghe.
Ritorna perenne e bruciante la domanda perchè mai Lecce, che spende tanti soldi per la cultura, non ha ancora impiantato una pinacoteca d'arte moderna, almeno per i suoi artisti. E vogliono che io ne scriva e vogliono che io ne parli. A chi? Ecco, parliamone. Ma chi ascolta? Montparnasse salentino è uno scherzo, un titolo. Ma una Galleria salentina non deve restare una chimera. E' utile, necessaria, urgente. Il vero ritorno, estate o no, dei nostri artisti in patria, a trovarvi i colleghi che ci vivono, è questo. Chi ascolta?
Fernando Manno