Presentazione per la mostra alla "Galleria del Corso" a Milano
Novembre 1973
Altri prima di me, da Luigi Montanarini a Virgilio Guzzi, da Vito Apuleo a Lorenzo Trucchi, hanno sottolineato la costante dell'arte di Pippi Starace, pittore leccese ma di formazione e di cultura romane, un sentimento della tradizione che via via si aggiorna nelle avanguardie moderate, una partenza felicemente post impressionista, che viene fortificandosi nell'insegnamento "cubista"; e, infine, una tendenza a mantenere il retaggio del mondo classico, senza però eccessive nostalgie per il particolare umanismo novecentista.
Mi pare però che Pippi Starace dal 1970 ad oggi abbia fatto un salto qualitativo notevole, al punto di ridurre o di eliminare del tutto gli aspetti negativi, "datati" della pittura: un certo manierismo classicheggiante, il gusto per un mito recitato, predisposto in una scenografia quasi didattica, su cui l'artista, per la dote contraria che gli ha dato natura, un forte cromatismo, si impegnava a sciogliere, a sintetizzare, ad "astrarre" il di più naturalistico, l'inerte dello schema. Non che i risultati fossero tutti opinabili; anzi la media dei prodotti, per così dire, della sua officina, anche prima di questo exploit dell'età matura, era di buon livello, componendosi spesso le frizioni maggiori e proprio in virtù del prevalere del suo magistero pittorico: baricentro di Starace fin dai tempi di Mafai, come può attestare una serie di opere intorno al 1950, epoca nella quale anche chi scrive ebbe ad occuparsi dell'artista pugliese. Ma, come ho accennato, oggi, il pittore ha qualche cosa in più, una invidiabile freschezza, una più trascinante fantasia, quasi che la sua problematica acquistasse una destinazione più alta, si riscattasse per un fine diverso.
Si veda per esempio "Albero sole n. 1 " e "Albero sole n. 2": l'impianto è ancora umanistico-decorativo, una "pastorale", ma si assiste ad uno spartito di spazi astratti, tra cielo, prato, muretti e al conseguente dirottarsi in punti diversi della tela, di gruppi di notazioni sensibili, a fare racconto di pittura, come se la sua origine post impressionista si isolasse e lontanasse in cumuli e trofei di fiori, di radici, dì frutti. E tra i vari "argomenti", spicca l'albero nel suo cerchio variopinto, di braci cromatiche, quasi che l'iride prenda vigore da un fuoco. Da chi volesse Starace ancora di più libero, come è in altri dipinti di questa fase, potrà essere ancora avvertita una diseguaglianza tra smalti rilevanti e campiture "astratte", tra una concezione di spazio sensibile e un'altra di spazio mentale; ma il timbro tonale è nobile, misteriosa tenerezza di quel giorno mitico, raffigurato dall'artista che viaggia finalmente nella fantasia e che non vuole più concedere il suo massimo a un pittoricismo fine a se stesso che ricostruisce in un'immagine interiore, il sentimento dell'esistente, fra natura e mitologia.
In "Albero sole n. 2" la pastorale è più decorativa, ma il personaggio principale è anche qui l'albero, il cui alone azzurro nel celeste del cielo suona come un mentito collage e al tempo stesso fa comprendere come l'artista sia allergico al "bel paesaggio" con tutti i punti impressionisti sugli i. E se induge in certi colori di natura, in certi effetti di veduta, è anche capace di rendere sagome unidimensionate in una sorta di controluce, quasi che la realtà sensibile, un tempo sua tiranna, stesse cambiando pelle in una misurata astrazione.
Come appar manifesto nel dipinto maggiore della mostra *"Sirena e sole", dove è personale l'idea del contrappunto di emersione (sole, gabbiani o vele) e immersione (sirena, alghe fiorite): e poetica; perché gli elementi naturali permeati a queste cose magiche e mitiche sono permutabili, l'aria e l'acqua nascono dalle figure. Di rado mi è accaduto di imbattermi in un sole così araldico e borchiato, così nel suo splendore, nel senso che i raggi diventano lame, girandole, senza abbagliare. Il pittore è riuscito a dare la sedimentazione decorativa, di. rei tattile di questa luce colorata; né si può parlare di uno schema puramente grafico di una immagine da ideogramma perché il benefico astro, principio della vita, l'artista sa articolare nel nerbo della pittura. In "Sirena, vele e sole" è più avvertibile la frizione tra spazi fisici e spazi mentali, ma in modo esemplare di una crisi, che è anche di gusto: in quanto l'artista, pur non stando ai patti col suo passato di costruttore per via organica e naturalistica, non perviene che in parte alla fluida intersezione o compresenza di diversi momenti nell'immagine globale.
Però anche qui come in "Albero sole n. 1", questo scontro dì istanze diverse caratterizza uno sforzo che non è velleitario, assumendo dinamica unitaria, intanto, nella bella monocromia di base, per cui il fondo è la chiave di tutto il quadro; da cui nasce, rosso su rosso, festeggiato dalle tenere incandescenze degli aranci, anche qui, il sole. E, per continuare nell'analisi del gruppo di opere finali dell'artista, allo scopo di risalire ad una sintesi critica, dirò di "Sole e mare": i tre elementi in gioco, un mare natura morta fra pesci e barbagli di luci, e si veda come questi barbagli vengano costruiti a mosaico con schegge e liste di cromia complementari, un cielo sguarnito e serico, quasi in castigo, per apparire ancora troppo convenzionale all'artista e un sole quasi oggetto, tanto è astratto, gioiello di luce incisa, sono "argomenti" ben al di là di una mitologia raccontata in presa diretta.
Ed eccoci in medias des del discorso di Pippi Starace, "ninfe" e "donne di luna", personaggi nuovi nella sua pittura, perché sono una sintesi di tutto il suo mondo umanistico, mitico e femminino. Non più donne in riposo o giacenti come nei quadri prima del 1970, non più giovinette di estrazione popolare e contadina con la mano alla guancia, sedute in contemplazione della luna, piccoli totem della vita quotidiana, come per esempio "Ragazza del porto" e "Ragazza e luna", ma simboli, anime, personificazioni pittoriche di un avvenimento, di un trapasso, di una folgorazione.
Sono visi di luna, di soli, dalle fattezze geometriche incise come su uno scudo, che svettano a trofeo ("Ninfa n. 1") o trascorrono nello spazio come comete ("Ninfa n. 2") e che non si possono leggere nella misura di una emozione da fuori a dentro, di una pura interpretazione della realtà; piuttosto, invece, nella misura di una immagine che non esiste nella realtà sensibile e che la realtà sensibile, cui l'artista si affida tuttavia nel suo rapimento, riesce alla fine a materializzare.
Sono opere che non si spiegano fuori del loro ritmo, di quel brucìare, passar oltre lo spazio della tela. E così la bellissima "Ninfa n. 2", una Amalasunta, e non mi pare irriverente citar qui Licini, pur così lontano da Starace nella sua officina tutta astratta, intrisa di reale, chiomata di piante, carica, ma non ímbarocchíta, della presenza dei verde: perché non c'è solo verde botanico, del resto, raro e come archeologico, da quei toni gravi di malva, c'è un alone di luce d'oro che equilibra le sue sfere volanti della testa e, diciamo così, del corpo: un mistero affettuoso, un sorriso, che è anche superamento sentimentale.
Tra i più tipici dipinti di Pippí Starace è "Donna di luna e fiori" per la gremitura quasi vetrina della materia, tenuta in scansioni di cromie verticali, terra bruciata, rosso pompeiano, avorio e per l'insorgenza di quei rari fiori, le strelitzie, che vestono il profilo della donna e lo presidiano come per una cerimonia che non conosciamo, per un rito che sa soltanto di compiere la natura...
Marcello Venturoli